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Salome Opera in un atto dal dramma di Oscar Wilde – Direttore Marc Albrecht – Regia Barrie Kosky – Scene e costumi Katrin Lea Tag – Luci Joachim Klein – Drammaturgia Zsolt Horpácsy – Regia ripresa da Tamara Heimbrock

 la Salomè in scena al Teatro dell’Opera di Roma fino al 16 Marzo, con la regia di Barrie Kosky.
Non siamo in Palestina. Tutto è buio sul palco e nel suo fondo, tutto è nero. L’unica luce arriva dalla buca, dove il Maestro Marc Albrecht dirige una splendida orchestra del Teatro dell’Opera.
Per il resto è solo un gioco di seguipersona – o occhi di bue,  che pongono al centro i cantanti volta per volta, da soli o a gruppo, senza dar la possibilità di guardare altrove. 

La mancanza di espliciti riferimenti spazio-temporali in scena, pur sapendo tutti dove e quando siamo, ha permesso alla costumista Katrin Lea Tag di vestire i protagonisti – Salomè, Erode ed Erodiade – in abiti contemporanei, oltre al pantaloncino di Giovanni Battista che però possiamo più facilmente ricondurre all’idea di una tunica che copra appena il bassoventre. 
Ed ecco quindi che arriva lei, Salomè, una Lise Lindstrom che ha meritato ogni secondo del lungo applauso riservato alla sua voce elegante e a quel volto che si è sposato perfettamente al personaggio per come ideato dalla particolare regia di Kosky. 
I
n abito lungo e coi capelli sciolti ci appare quasi come una diva, un po’ ricorda la popstar dei record, Taylor Swift. Una bellezza capricciosa, la sua. Una parte che già di per sé è volubile, che cambia idea e s’impunta. Questa Salomè ancora di più. Centrale com’è l’espressività nella (non)scenografia tutto si consuma sul suo volto, che si arriccia come quello di una ragazzina viziata, prima per il rifiuto di Giovanni Battista (o per meglio dire Jochanaan, Nicholas Brownlee) e poi per dar contro ad Erode (John Daszak). Una principessa che è inutile provare a dissuadere, che deve aver ciò che vuole, e lo vediamo dal come si pone; non si tratta solo del rispetto di un giuramento di Erode. Erode che a sua volta, nei suoi abiti da uomo del secondo ‘900, si mostra padre molto più che Re; l’uomo di famiglia che tacita la moglie e canzona la figlia, senza sfarzo né corte. 

Jochanaan è invece il più biblico dei personaggi. L’aspetto dismesso all’inverosimile, sciatto, il prigioniero devoto a Dio senza interesse per la bella donna che prova ad attrarlo. Quasi fuori contesto nonostante sia il contrario, con la voce possente di Brownlee e le parole dure riprese dal dramma di Wilde. Sottolineato il contrasto tra ricchi e sottomessi, tra devoti e pagani. E ancora ci allontaniamo un po’ dal Vangelo, perché nella sua morte non c’è il Santo né chi battezzò Cristo, ma solo la punizione per l’amore non ricambiato. Da lui trae origine anche il valore di Erodiade (Katarina Dalayman) che qui però non ha niente a che vedere con la matriarca evangelica che induce la figlia a chieder la morte del Santo. Le interessa sì che tacciano le voci ingiurianti che Giovanni racconta, ma questa Erodiade fatica a farsi sentire. 
Ritorna, forse condizionato dal costume, quell’idea di famiglia patriarcale, che all’indomani dell’Otto marzo fa storcere qualche naso, ma che è autentico specchio della società in cui la Salomè è stata scritta e ancor di più ambientata. E la ribellione bambinesca della figlia non è femminista; Salomé non è Giuditta né Antigone, il valore del suo potere è solo regale, può aver quel che vuole perché può fregiarsi del suo nome.

Nel minimalismo scenico scelto per questa Salomè anche la danza diventa altro; Salomè siede a gambe larghe e srotola metri e metri di capelli chiari, li stessi che ha Jochanaan e che ha prima esaltato e poi insultato dopo il suo rifiuto. Non più un sensuale ballo, anche se la costruzione della scena ha un sottotesto quantomeno malizioso, ma un rapporto fisico con l’ideale d’amore che non riesce a ottenere. Erode e il suo giuramento sono solo strumento, qui tutto si centra sul rapporto di Salomè con quel prigioniero di cui vorrebbe quantomeno le labbra.
Un desiderio destinato a realizzarsi dopo, quando quelle labbra si son fatte carne morta, quando più dell’eros è il potere che la soddisfa.

 

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