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Un’elegante posa da diva d’altri tempi, sensuale e vaporosa ma dotata del giusto carisma per animarne le gesta senza risultare inopportuna: così Syretha Smith si presenta sulla copertina del suo sesto album di studio “Until We Meet Again”, richiamando, con pochi tratti color pastello, l’era d’oro di Diana Ross, Gwen McCrae e Dionne Warwick. Ma una volta smontati i panni di scena e osservata più da vicino la sua storia, Sy non è esattamente quel tipo di personalità da grandi produzioni e platee. Attiva da oltre un ventennio nella scena underground soul-jazz losangelina, questa Signora preferisce far da sola – Psyko! è la sua etichetta personale, con la quale ha pubblicato sin dai primi anni Duemila, mentre per questa uscita la troviamo sotto l’ala del duo Foreign Exchange. Una scelta coraggiosa che certo ne limita il raggio d’azione, ma che le consente di prendersi il tempo e la libertà per inseguire a piacimento il flusso dell’ispirazione. Il segreto del suo piccolo ma confortante successo risiede in una curiosità inestinguibile, in un talento invero particolarmente versatile, e nel poter contare su un affiatato giro di colleghi dai simili intenti, collezionato lungo anni di attività nell’ambiente in veste di autrice, vocalist e arrangiatrice.

I risultati di questo navigato avallo frutto della passione sono presto evidenti, perché “Until We Meet Again” segna una nuova evoluzione nell’arco creativo di Sy; dopo varie pubblicazioni all’insegna del nu-r&b venato di lounge e funk digitale, peraltro realizzate con buon anticipo sulla tabella di marcia (ascoltatevi “The Syberspace Social”, datato 2005), il nuovo album si appoggia con classe su una calda miscela di jazz acustico, rintocchi d’orchestra e fili elettrici di basso e tastiera a far da collante. Non esattamente vintage ma altrettanto inossidabile: quella foto di copertina ha un significato, dopotutto.

L’età e l’esperienza dell’autrice segnano il tema portante di un lavoro che, come da titolo, è dedicato a tutte quelle persone che non ci sono più, alla gratitudine delle memorie condivise e alla speranza di rivedersi, un giorno, nell’Aldilà.
L’introduzione di “Flowers”, sorretta da bassi di velluto e delicate filigrane elettro-acustiche, dispensa subito quel calore soul-jazz che potrebbe essere intonato da una moderna versione di Minnie Riperton, Deniece Williams e Anita Baker. Ma è con “Why Do You Keep Calling Me” che Sy dispiega le proprie qualità: un brano sontuoso e tentacolare, che cresce poco a poco, sviluppando archi, cori e un breve assolo di tastiera attorno all’interprete, prima di farle prendere il volo verso quell’inaccessibile registro vocale del “whistle” che appartenne, appunto, alla già citata Riperton.
Con “Photograph” si ha l’impressione di sfogliare un album di memorie agrodolci, mentre l’andante passo lounge-funk di “Remember How To Fly” instaura un bucolico dialogo in voliera con la felpata tromba di Chris Botti, facendo presagire l’arrivo di nuove, sontuose orchestrazioni. Invece Sy rallenta il ritmo per intonare la perlacea ballata al piano, arpa e congas di “Always Pick Up For You”, degna delle sottigliezze interpretative di una matura Janet Jackson.

E quando l’ascolto sembra essersi assestato su questa elegante stesura soul-jazz, ecco che il disco cambia registro; tra echi spaziali e una pulsante sezione ritmica di basso e batteria, “Slide” inserisce l’orchestra dentro seghettate cornici downtempo. E questo per tacere dell’irresistibile “Masterclass”, che si avvale dell’aiuto di Sheila E. e Leo Amuedo per toccare sinuosi fraseggi afro-house – impossibile non pensare alla Gaelle di “Transient”, altra formidabile autrice anni Duemila rimasta appannaggio di pochi adepti. Con la passeggiata in Cadillac di “Summer Of ‘93” e i piatti jazz-funk di “All The Ways”, si getta invece uno sguardo all’era d’oro di fine millennio dell’hip-hop di Common e dell’r&b elettronico di Brandy, colleghi di Sy già ai tempi, dal momento che il debutto di quest’ultima, “Psykosoul”, veniva originariamente rilasciato proprio nell’aprile del 2000.
Giusto il tempo di fare i ringraziamenti tramite una title track a passo di samba, e il sipario cala su un disco talmente curato che potrebbe suonare sin troppo soffice ed elitario alle orecchie dei non adepti. Ma non fatevi ingannare dall’atmosfera: dietro la formale eleganza di arrangiamenti ritagliati al dettaglio, e di una voce quietamente superlativa, si cela uno degli ascolti più caldi ed emotivi di questa prima metà dell’anno. “Until We Meet Again”, Sy Smith.

 

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